Pietro Roccasecca
La mostra delle atrocità o la storia dell’occhio?
J. G. Ballard nel 1969 organizzò una mostra d’automobili incidentate al New Arts Laboratory di Londra. Racconta lo scrittore che la reazione del pubblico di fronte alle macchine, che erano state esposte tutte accartocciate fu vicina all’isteria nervosa. Una giovane intervistatrice in topless, che era stata ingaggiata da Ballard per sottoporre i visitatori ad un test, fu quasi violentata sul sedile posteriore di una Pontiac in mostra. Le macchine, esposte senza alcun tipo di commento, subirono molteplici atti di vandalismo. L’insieme di queste reazioni spinse Ballard a scrivere Crash.
Già in Life in, la precedente mostra per Horti Lamiani di Claudio Di Carlo, avevo segnalato una tangenza poetica con l’opera letteraria La mostra delle atrocità di J. G. Ballard, ne discussi a lungo con Claudio di Carlo, così come ho discusso con l’artista l’evidente citazione ballardiana del titolo di questa mostra e del soggetto dei dipinti.
La conclusione cui sono giunto potrà a molti sembrare strana o incorretta, ma sono convinto che, come asserisce Claudio Di Carlo, le tangenze poetiche con J.G. Ballard sono pure coincidenze.
Non si tratta nemmeno di Zeitgeist, piuttosto sono delle affinità iconografiche e tematiche molto stringenti, frutto di due percorsi paralleli e talvolta convergenti e forse, come vedremo, di una fonte comune.
Mentre l’indagine di Ballard è focalizzata su l’automobile e sui divi dello star sistem intesi come icone della società dello spettacolo, diffuso e introiettato. Il lavoro di ricerca di Claudio Di Carlo si svolge sul versante del glamour, dialoga con il sistema iconografico della pubblicità, e, in questa particolare occasione, indaga due icone della società dei consumi: l’automobile e la modella della pubblicità. Due status symbol di una società delle apparenze; questo è il punto comune più evidente tra le poetiche dei due artisti, la coincidenza iconografica.
Tuttavia Ballard procede verso la compenetrazione erotica tra macchina e corpo umano, tra l’erotismo delle forme geometriche inorganiche delle macchine e il sex appeal delle forme organiche del corpo umano. La poetica di Ballard ha trovato esito nei recenti sviluppi della Body art, si pensi ai meccanismi inseriti nelle gambe dei personaggi del film Crash di Cronenberg, per ricomporre le fratture multiple, come al prototipo di tutte le ibridazioni tra organico e inorganico, che sono seguite.
La lettura iconografica dei cinque dipinti di Claudio di Carlo, invece, porta, per stessa ammissione dell’artista, alla Storia dell’occhio di Georges Bataille, che ha indagato lo stretto legame tra erotismo e morte, in una memorabile scena erotica al cospetto di un incidente automobilistico. E mi chiedo qui, se forse George Bataille non sia la fonte anche di Ballard, il che darebbe ragione della netta affinità dei temi del pittore con quelli dello scrittore. Dunque è l’Erotismo di Bataille e non quello di Ballard che riluce negli incidenti pittorici di Crash.
L’icona della macchina questa volta non è estratta dalla pubblicità, ma dalla cronaca. Non è più l’oggetto del desiderio, ma lo strumento di una carneficina cui non si può mettere fine senza scuotere l’intera società occidentale. Le vittime degli incidenti automobilistici sono sacrificate sull’altare del “benessere” e della ricchezza, in un rito officiato da mannequin anoressiche e seminude.
La poetica di Crash di Claudio Di Carlo svela il meccanismo magico della pubblicità. Come ha scritto Ernesto De Martino in Sud e magia, la magia contadina con i suoi distici magici, più che ad allontanare il male dalla vita miserrima dei contadini, era necessaria, per immaginare collettivamente la possibilità di una vita senza fatica, senza fame, senza malattie, senza morte in fasce, senza turbini e tempeste che distruggono il raccolto. Il “malocchio” e “l’affascino” erano allontanati facendo risuonare un distico magico premoderno.
Allo stesso modo, sembra dirci Claudio Di Carlo, la pubblicità creare l’immaginario collettivo di un mondo senza dolori, allontanando miseria e disgrazia col suono dei ritornelli delle clip pubblicitari postmoderni.
Claudio Di Carlo giustappone la mannequin e l’automobile incidentata, le due icone sono affiancate come in un surreale calendario glamour , come in ex voto, erotico e noir.
L’iconografia è prossima a quella delle Vanitas seicentesche: le due gambe affusolate e il rottame dell’automobile sono il corrispettivo postmoderno della mosca che cammina sull’uva matura o della foglia avvizzita nel cesto di frutta matura. La pittura di Claudio Di Carlo d’altra parte, con i suoi effetti di reale, le sue messe a fuoco, il suo accentuare la texture dei tessuti a discapito degli incarnati, con le rarefazioni dei fondi, può trovare un confronto con la tradizione della pittura seicentesca europea. Quella di Claudio di Carlo è pittura postmoderna riattualizzata nelle tecniche di costruzione delle immagini e nei temi, ma pur sempre “pittura pittura” realizzata nel lento costruire, fare e disfare delle forme, dei toni, dei timbri e delle luci. Pensata per l’occhio.
Andrea Orsini
Lusso e Critica / Crash di Claudio Di Carlo
Disastro. Catastrofe. Punto limite. Autoveicolo come emblema della produzione e del consumo: “Il lavoro rende liberi…”. Post pasoliniano “Theorema” erotico dell’era metallurgica. Alba della tetta mutante. Ecco un lavoro che riflette sulla condizione umana. Un filosofo disse: “essere gettati”. Grazie, prendiamo questa profetica definizione. Effettivamente è un incidente mortale…
Guardando i quadri/crash di Claudio Di Carlo potremmo maliziosamente associare il “problema” alla Femmina… Non saremmo originali. E’ già di Omero l’immagine di una rovina sullo sfondo di una donna: “addio Troia fumante” commenta Paride in fuga dalla sua città. Ma la rappresentazione dei quadri/crash non dà voce alla distruzione, la immanentizza come un paesaggio naturale, oggettivo e sfocato del postmoderno, e restituisce l’azione della soggettività al femminile del piano corto. Claudio Di Carlo lavora per polarità e produce senso dalla rappresentazione della tensione. Un processo di spazializzazione e di narratizzazione dell’archetipo perseguito da un punto di vista sospeso, astratto, analogo. Il punto di un io che ha bisogno del racconto per elaborare le sue emozioni. Un processo che l’Arte ha progressivamente seguito, dal Rinascimento a oggi verso la dimensione soggettiva dell’artista. Una dimensione fondata sulla capacità plastica e proteica del linguaggio di formalizzarsi attraverso una continua evoluzione generativa che lungi dal divenire astrazione disumana, ha reso l’Arte un luogo di libertà emozionale sublimata. Questo perchè la possibilità stessa di essere del linguaggio poggia su quei “mattoni” biologici, fondamento fisico/corporale degli impulsi espressivi, che sono le emozioni. Animali che si esprimono siamo. La Modernità non è altro che il maturare della coscienza soggettiva come spazio privato, libertà raggiunta, superamento dei canoni “oggettivi” e patriarcali della metafisica. Fuori dalle architetture del “sacro”, iniziamo noi, con la nostra fragilità meravigliosamente vera. Ecco allora la libertà transessuale di Claudio Di Carlo che si dota di identità femminile con pronunciate forme sinuose, fumettistiche, seducenti e perverse. Conduce nei suoi crash un circolare, godardiano “Weekend” erotico di esorcismo totale. Non c’è nessun compiacimento edonistico nel glamour evocato perché l’operazione artistica di Di Carlo è “attoriale”. La vanità della scarpetta lussuosa rivela l’immedesimazione in una “cenerentola” sessuale che è l’artista stesso. Non è più l’archetipo greco del sesso contro la morte, ma la novità di un Io del Piacere che osa affermare se stesso contro il Nulla. Il lusso dell’esorcismo intimo come critica dello stato delle cose.
Germano Scurti
Adriana Martino
Dont’t cry baby: opere sulle tracce dei resti
La pittura di Claudio Di Carlo tratta particolari del corpo. Volti, piedi, gambe. Nella serie iniziale di opere dell’artista s’incontrano particolari come bocche, sederi, pubi. Di recente diventano tuttavia centrali e ossessive parti, quali: gambe, piedi, ma anche avanzi o secrezioni corporali. Quella di Di Carlo è una pittura carnale che si snoda su traiettorie diverse. Le opere si presentano principalmente all’insegna del racconto e della visione, nel vasto immaginario metafisico del nostro artista mediale, dove fanno la comparsa ulteriori particolari come trucco, minigonne, calze a rete, tacchi a spillo, bondage, pearsing, ecc. Dal 2001, una seconda ricerca accompagna quella primaria della pittura, riguarda la realizzazione di video installati o proposti in relazione agli ambienti indagati dai dipinti. Gli oli di piccole e grandi dimensioni su tela sembrano anche totalizzare un’irriverente esplosione contro il potere, mentre raccontano la vita d’una generazione, quella che ha segnato il cambiamento culturale e sociale degli ultimi trent’anni e che ancora oggi porta impresse sulla propria pelle ferite e cicatrici della lotta della controcultura giovanile di quegli anni. Ma la caratteristica più importante delle opere in mostra, di Don’t cry baby, è quella di essere una pittura su due fronti intrecciati tra loro che si levano come colonne, in un continuo rinvio che richiede una lettura a incrocio. A volte la colonna di sinistra (ma può anche essere l’esatto contrario) è dedicata ai corpi in decomposizione o a secrezioni corporali: carcasse di animali squartati o morti, come la serie denominata “Mattatoio barocco”, o lamiere di macchine incidentate, come la raccolta che ha inaugurato “Crash”; a destra compare invece una parte edificante che potrebbe anche essere identificata con l’arte nel suo trionfo sistematico rappresentato da corpi femminili, in una dialettica complessiva del quadro che ritrae una realtà che tuttavia si va sfaldando. La pittura rock, saturnina e “nera”, di Claudio Di Carlo, a cominciare dalla sua architettura e dalla sua struttura, lotta contro il male, richiama quella tradizione dell’arte del ‘600, con Caravaggio, del ‘700, con Goya, o quella più inquietante e parallela di artisti essenziali del Novecento, come Francis Bacon. Accanto ad essa si situano anche opere letterarie o cinematografiche, opere quali: Crash, di J.G.Ballard, e D. Cronemberg, Pulp Fiction di Tarantino,Trainspotting, Acid House o Ectasy di Irvine Welsh, Costretti a sanguinare di Marco Philopat, Vere allucinazioni di T. McKenna, assoluti capolavori delle dinamiche storiche complesse che hanno scosso la nostra memoria e informato chi non c’era o chi non aveva capito fino in fondo l’esperienza esistenziale di un passaggio d’epoca così importante, tra rivoluzione e controrivoluzione giovanile, che prima diventa sessuale e poi umanistica, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. Di Carlo va però oltre: egli non solo si rinserra a lavorare nel suo tempio/casa/studio/carcere ma in modo particolare rinuncia a ogni forma di sottomissione al sistema, meditando e concentrandosi su alcuni fenomeni pure presenti nell’arte, lo strapotere per esempio di chi opprime i deboli, fino a renderli carcasse vuote. Certo è che Don’t Cry Baby richiede una lettura che proceda in almeno due sensi, da sinistra a destra o viceversa. A sinistra, si può ipotizzare il cosciente. A destra, l’inconscio? Da una parte troviamo la materialità e il pensiero nel loro agire, dall’altro l’inconscio in forma ludica, con lo spirito che s’innalza fino al sublime. Si passa dal gioco del linguaggio alla logica (con una pittura velata e morbida in cui la luce sfuma dal grigio al rosso, passando simultaneamente dai toni freddi e cupi a quelli bruni e caldi); dalla poesia al suo slabbramento nella teoresi. Il resto o il dettaglio attraversa l’opera dividendola. Il resto in teoria mostra ciò che esso stesso può ancora generare. Don’t Cry Baby è un tentativo di elaborazione del lutto, per la morte dell’arte, per la fine dell’Occidente, e forse per ogni sorta di catastrofe passata e futura. La domanda a tal punto può anche essere: che cosa rimane allora dei resti dell’arte? I rinvii sono innumerevoli: lo smaltimento, ad esempio, di rifiuti eccellenti come i cadaveri, la sopravivenza del Mito, la morte del sistema dell’arte dopo la rivoluzione introdotta dalle nuove tecnologie e dalla new economy, forse il fratello dell’artista di recente scomparso. E se anche l’inammissibile avesse un ruolo fondamentale? Claudio Di Carlo è un artista indipendente, che gioca con la produzione, alla maniera di Charlie Chaplin o di Nanni Moretti nel cinema. Egli, dunque, potrebbe ben rappresentare un elemento di decostruzione sia del sistema sia della sua logica totalizzante. Nelle sue opere l’arte si riscatta e forse rinasce a confronto con la carne lacerata. Così, mentre sulla sezione di destra del quadro trionfano le sublimazioni, ovvero la vita, il sesso, l’arte, sul fondo o sulla sinistra giacciono i resti, le secrezioni, gli effluvi di carcasse putride. Se c’è un riscatto teorico questo è da cercare nella funzione del tempo: il tempo delle sorprese inaspettate, che nell’arte affiora dalla tradizione e dalla sperimentazione. Magari ricordando che la vita animale è anche dentro di noi e che paradossalmente ci guarda. L’animale nell’opera ci fronteggia. Noi al suo cospetto rimaniamo nudi. E’ l’ultima speranza che forse ci rimane. Ma è una speranza che dobbiamo far vivere dentro di noi.
Lucia Spadano
Claudio Di Carlo
Il linguaggio di Claudio Di Carlo è, da sempre, quello della pittura: la tela è il suo campo d’azione. Per lui la storia dell’immagine costituisce una fonte inesauribile da cui trarre materiale di riflessione. Nel ciclo di opere presentato recentemente in una personale presso una galleria romana sotto il denominativo di Crash, si legge un’aderenza bruciante alla realtà, più attuale che mai. La sua pittura, che sembra muoversi in un contesto del tutto immaginario, in un paese dove non hanno più corso le idee, invece tratta immagini che testimoniano scontri veri e morti ammazzati vissuti nello scenario del nostro quotidiano. L’incidente autostradale coinvolge vicende reali e sofferte dinanzi alle quali la parodia, il travestimento fetish di una donna con i tacchi a spillo, ci riporta al doppio senso che gioca tra il “serio e il faceto” , “ l’ eros e thanatos”. Le macchine, la violenza, le donne, la strada vuota sono i momenti di una pittura iconografica che trascrive l’agghiacciante vicenda di una cronaca, forse dell’illustrazione stessa. Nel ciclo presentato in questa mostra alla galleria pescarese Atelier 777, titolato Don’t cray baby, la contrapposizione vita/morte si ripropone in una messinscena ambientata in un mattatoio, in cui carcasse di animali squartati “convivono” con figure ostentatamente vive e vitali. La violenza, l’aggressività suggerita dalle prime sembrano tuttavia scherinire l’espressività inconscia delle altre.
Nella forma di una pittura che richiama molto lo stile della medialità, Di Carlo ci fa vedere scene verosimili, che toccano la consuetudine, drammi che non hanno niente di improbabile, simboli ed icone di donne che indossano oggetti ed accessori, spesso messi in primo piano o tagliati in particolari scorci, in modo da creare piccoli traumi percettivi nella curiosità infinita dello spettatore, o forse del guardone che fa a gara per scegliere se osservare i Thriller, le Spy story, o i video da erotic dream. Una simile successione di ideazioni, di immagini, di scene, si ritrova, con una potenza di suggestione fantastica e realistica insieme, in un romanzo pittorico che oggi sembra essere il momento fondamentale della ricerca di Di Carlo. E’ così che la vocazione mediale dell’artista tende a collocare su uno sfondo quotidiano, trasparente e post-realistico, il senso stesso della pittura. Esso acquista uno spessore drammatico nella misura in cui il piacere e il dolore provengono dalle varie storie di vita che i media sbattono in prima pagina. Un assolo drammatico della gente d’oggi che ci suggerisce un’idea: il dramma moderno è un dramma con molti monologhi.