Pietro Roccasecca
La mostra delle atrocità o la storia dell’occhio?
J. G. Ballard nel 1969 organizzò una mostra d’automobili incidentate al New Arts Laboratory di Londra. Racconta lo scrittore che la reazione del pubblico di fronte alle macchine, che erano state esposte tutte accartocciate fu vicina all’isteria nervosa. Una giovane intervistatrice in topless, che era stata ingaggiata da Ballard per sottoporre i visitatori ad un test, fu quasi violentata sul sedile posteriore di una Pontiac in mostra. Le macchine, esposte senza alcun tipo di commento, subirono molteplici atti di vandalismo. L’insieme di queste reazioni spinse Ballard a scrivere Crash.
Già in Life in, la precedente mostra per Horti Lamiani di Claudio Di Carlo, avevo segnalato una tangenza poetica con l’opera letteraria La mostra delle atrocità di J. G. Ballard, ne discussi a lungo con Claudio di Carlo, così come ho discusso con l’artista l’evidente citazione ballardiana del titolo di questa mostra e del soggetto dei dipinti.
La conclusione cui sono giunto potrà a molti sembrare strana o incorretta, ma sono convinto che, come asserisce Claudio Di Carlo, le tangenze poetiche con J.G. Ballard sono pure coincidenze.
Non si tratta nemmeno di Zeitgeist, piuttosto sono delle affinità iconografiche e tematiche molto stringenti, frutto di due percorsi paralleli e talvolta convergenti e forse, come vedremo, di una fonte comune.
Mentre l’indagine di Ballard è focalizzata su l’automobile e sui divi dello star sistem intesi come icone della società dello spettacolo, diffuso e introiettato. Il lavoro di ricerca di Claudio Di Carlo si svolge sul versante del glamour, dialoga con il sistema iconografico della pubblicità, e, in questa particolare occasione, indaga due icone della società dei consumi: l’automobile e la modella della pubblicità. Due status symbol di una società delle apparenze; questo è il punto comune più evidente tra le poetiche dei due artisti, la coincidenza iconografica.
Tuttavia Ballard procede verso la compenetrazione erotica tra macchina e corpo umano, tra l’erotismo delle forme geometriche inorganiche delle macchine e il sex appeal delle forme organiche del corpo umano. La poetica di Ballard ha trovato esito nei recenti sviluppi della Body art, si pensi ai meccanismi inseriti nelle gambe dei personaggi del film Crash di Cronenberg, per ricomporre le fratture multiple, come al prototipo di tutte le ibridazioni tra organico e inorganico, che sono seguite.
La lettura iconografica dei cinque dipinti di Claudio di Carlo, invece, porta, per stessa ammissione dell’artista, alla Storia dell’occhio di Georges Bataille, che ha indagato lo stretto legame tra erotismo e morte, in una memorabile scena erotica al cospetto di un incidente automobilistico. E mi chiedo qui, se forse George Bataille non sia la fonte anche di Ballard, il che darebbe ragione della netta affinità dei temi del pittore con quelli dello scrittore. Dunque è l’Erotismo di Bataille e non quello di Ballard che riluce negli incidenti pittorici di Crash.
L’icona della macchina questa volta non è estratta dalla pubblicità, ma dalla cronaca. Non è più l’oggetto del desiderio, ma lo strumento di una carneficina cui non si può mettere fine senza scuotere l’intera società occidentale. Le vittime degli incidenti automobilistici sono sacrificate sull’altare del “benessere” e della ricchezza, in un rito officiato da mannequin anoressiche e seminude.
La poetica di Crash di Claudio Di Carlo svela il meccanismo magico della pubblicità. Come ha scritto Ernesto De Martino in Sud e magia, la magia contadina con i suoi distici magici, più che ad allontanare il male dalla vita miserrima dei contadini, era necessaria, per immaginare collettivamente la possibilità di una vita senza fatica, senza fame, senza malattie, senza morte in fasce, senza turbini e tempeste che distruggono il raccolto. Il “malocchio” e “l’affascino” erano allontanati facendo risuonare un distico magico premoderno.
Allo stesso modo, sembra dirci Claudio Di Carlo, la pubblicità creare l’immaginario collettivo di un mondo senza dolori, allontanando miseria e disgrazia col suono dei ritornelli delle clip pubblicitari postmoderni.
Claudio Di Carlo giustappone la mannequin e l’automobile incidentata, le due icone sono affiancate come in un surreale calendario glamour , come in ex voto, erotico e noir.
L’iconografia è prossima a quella delle Vanitas seicentesche: le due gambe affusolate e il rottame dell’automobile sono il corrispettivo postmoderno della mosca che cammina sull’uva matura o della foglia avvizzita nel cesto di frutta matura. La pittura di Claudio Di Carlo d’altra parte, con i suoi effetti di reale, le sue messe a fuoco, il suo accentuare la texture dei tessuti a discapito degli incarnati, con le rarefazioni dei fondi, può trovare un confronto con la tradizione della pittura seicentesca europea. Quella di Claudio di Carlo è pittura postmoderna riattualizzata nelle tecniche di costruzione delle immagini e nei temi, ma pur sempre “pittura pittura” realizzata nel lento costruire, fare e disfare delle forme, dei toni, dei timbri e delle luci. Pensata per l’occhio.
Andrea Orsini
Lusso e Critica / Crash di Claudio Di Carlo
Disastro. Catastrofe. Punto limite. Autoveicolo come emblema della produzione e del consumo: “Il lavoro rende liberi…”. Post pasoliniano “Theorema” erotico dell’era metallurgica. Alba della tetta mutante. Ecco un lavoro che riflette sulla condizione umana. Un filosofo disse: “essere gettati”. Grazie, prendiamo questa profetica definizione. Effettivamente è un incidente mortale…
Guardando i quadri/crash di Claudio Di Carlo potremmo maliziosamente associare il “problema” alla Femmina… Non saremmo originali. E’ già di Omero l’immagine di una rovina sullo sfondo di una donna: “addio Troia fumante” commenta Paride in fuga dalla sua città. Ma la rappresentazione dei quadri/crash non dà voce alla distruzione, la immanentizza come un paesaggio naturale, oggettivo e sfocato del postmoderno, e restituisce l’azione della soggettività al femminile del piano corto. Claudio Di Carlo lavora per polarità e produce senso dalla rappresentazione della tensione. Un processo di spazializzazione e di narratizzazione dell’archetipo perseguito da un punto di vista sospeso, astratto, analogo. Il punto di un io che ha bisogno del racconto per elaborare le sue emozioni. Un processo che l’Arte ha progressivamente seguito, dal Rinascimento a oggi verso la dimensione soggettiva dell’artista. Una dimensione fondata sulla capacità plastica e proteica del linguaggio di formalizzarsi attraverso una continua evoluzione generativa che lungi dal divenire astrazione disumana, ha reso l’Arte un luogo di libertà emozionale sublimata. Questo perchè la possibilità stessa di essere del linguaggio poggia su quei “mattoni” biologici, fondamento fisico/corporale degli impulsi espressivi, che sono le emozioni. Animali che si esprimono siamo. La Modernità non è altro che il maturare della coscienza soggettiva come spazio privato, libertà raggiunta, superamento dei canoni “oggettivi” e patriarcali della metafisica. Fuori dalle architetture del “sacro”, iniziamo noi, con la nostra fragilità meravigliosamente vera. Ecco allora la libertà transessuale di Claudio Di Carlo che si dota di identità femminile con pronunciate forme sinuose, fumettistiche, seducenti e perverse. Conduce nei suoi crash un circolare, godardiano “Weekend” erotico di esorcismo totale. Non c’è nessun compiacimento edonistico nel glamour evocato perché l’operazione artistica di Di Carlo è “attoriale”. La vanità della scarpetta lussuosa rivela l’immedesimazione in una “cenerentola” sessuale che è l’artista stesso. Non è più l’archetipo greco del sesso contro la morte, ma la novità di un Io del Piacere che osa affermare se stesso contro il Nulla. Il lusso dell’esorcismo intimo come critica dello stato delle cose.
Germano Scurti
Video: Crudele approdo
Tempo di tacco al guinzaglio, ovvero l’impossibilità di considerarsi uno
Il video KK11 ci appare come la sintesi di un intero ciclo pittorico dell’artista Claudio Di Carlo. Quasi una destinazione, che sembra muoversi alla ricerca dell’aura sul filo teso dei paradossi.
Negli ultimi anni il gesto pittorico di Claudio Di Carlo si è sempre misurato con la proliferazione segnica e de-realizzante dell’immaginario mediale.
Tra lo spettacolo delle merci e la più fondamentale geografia del desiderio, l’autore ha trovato nella figura femminile quella specifica zona di intensità attraverso cui esprimere un proprio personale rapporto tra la vita e l’arte, la natura inevitabilmente ambivalente della nostra esperienza sensibile, sempre sospesa tra artificio e autenticità.
In effetti, Di Carlo agisce sempre su questo doppio binario. Da una parte trasforma il corpo in simulacro, ovvero in un sentire che definisce la passione sociale condivisa. Dall’altra parte, proprio grazie a questa primaria valutazione emozionale, di per sé artificiosa, riattiva il nostro sentire, mobilita la carne, quella di chi guarda, come possibilità di riapertura del senso. Nel farsi protesi, estensioni del nostro desiderio, le sue Figure di donne diventano “metafore attive” che trasformano e trasmettono esperienza.
Ma se nelle opere precedenti Di Carlo ha concentrato nel “sistema-del-quadro”, in quell’unicum portatore di aura, i contenuti della proliferazione stereotipata dei segni, la spettacolarizzazione dei consumi, con il video KK11, sembra sviluppare una ambivalenza ancor più fondamentale. Qui va direttamente all’origine, alla tecnica che ha prodotto l’immaginario mediale e i suoi spaesamenti, in una paradossale ricerca dell’aura e del tempo perduto. Con il video KK11, quasi a compiere un movimento retrogrado, è la stessa riproducibilità dell’immagine che realizza una proliferazione “infinita” del gesto pittorico – mediato dalla tecnica.
La durata di KK11, la resa temporale della sua forma, in effetti si dispiega in una proliferazione di “istanti”, di eventi che si fissano e s’incorniciano, frame dopo frame. Le posture, i movimenti, i gesti, di una ‘mannequin’ dalla grazia malinconica, interni al “sistema-del-quadro”, definiscono appunto un complesso sistema di segni che incorniciano una pluralità di specifiche unità. Grazie allo sfocato dell’intero piano della visione si produce una coesistenza tra la “campitura” e la Figura, le cui metamorfosi realizzano allo stesso tempo lo spazio chiuso degli “istanti” e la sequenza del movimento.
Si sviluppa in questo modo una tensione paradossale e con essa l’evocazione di un mondo perduto, resa da una evanescenza quasi crepuscolare. Da una parte la riproposizione del valore dell’aura, dell’unicità che si fissa in un istante, proprio attraverso quella dimensione tecnica che, secondo Walter Benjamin, l’ha distrutta.
Paola D'Andrea
Antonio Zimarino
Gianluca Marziani
Sonia Miralles Bou
Lorenzo Canova
Carlotta Monteverde
Francesca Perti
Simona Cresci
A PROPOSITO DEL VIVERE E DELL’AGIRE…
“Between art and life” (Rauschenberg)
L’uomo, cosi come l’artista, si forma con l’esperienza. È da questa conoscenza che bisogna partire per presentare l’opera di Claudio Di Carlo che, con la mostra dal titolo “Life in”, racchiude la sua singolare attività artistica che lo vede impeg-nato, da oltre un trentennio, in importanti vicende umane basate sulla condivisione degli ideali ed esperienze collettive:
“la mia storia e la mia crescita professionale è stata proprio vivere la vita”. Ed è ancora oggi che la scelta di vivere un’esperienza collettiva come la coabitazione, dal 1999, nell’Ice Basile studio a Roma, è una felice conseguenza che l’artista pescarese vive da quando, all’età 16 anni, partecipa alla prima comune anarchica hippy in Italia, dislocata in cinque cascine nelle montagne piemontesi.
Per contestualizzare l’opera di Claudio Di Carlo – oggi concentrata nella pittura – non si può ignorare la sua formazione artistica avvenuta a Pescara in un periodo storico (gli anni Settanta) che, dopo l’influenza della contestazione giovanile, si caratterizzò per le scelte culturali alternative e d’avanguardia. Claudio Di Carlo, in pieno accordo con gli eventi caratterizzanti il principio studentesco, partecipò attivamente all’ondata di incertezza attraverso manifestazioni artistiche e musicali che divennero il suo canale di comunicazione.
Tali eventi furono la conseguenza di avvenimenti politici ed economici avvenuti negli anni Sessanta quando, contemporaneamente all’espansione dell’imperialismo USA e dello sviluppo capitalistico europeo, la mercificazione del prodotto artistico venne razionalizzata al massimo: galleristi e direttori di museo si qualificarono come managers della produzione artistica creando strutture di mercato ed infrastrutture di informazione analoghe, per certi versi, a quelle delle normali aziende. Forte, a tal proposito, la protesta di artisti che vedevano il condizionamento ideologico nei confronti del loro settore con la trasformazione dell’arte figurativa in uno strumento di consenso da parte del sistema e delle classi sociali dominanti. Tale consenso avveniva non solo nell’area dell’imperialismo ma anche in quella subordinata dei Paesi capitalistici europei; si aggiunga che le contraddizioni in seno allo sviluppo imperialistico (Viet-Nam) ed a quello capitalistico dei Paesi europei si accentuava sempre più.
La conseguenza furono le rivolte studentesche, il maggio francese, la contestazione delle istituzioni sociali e culturali.
Le rivolte studentesche e giovanili a Roma, Parigi e Berlino rappresentarono una forte ventata di rinnovamento e trasformazione che percorse l’Europa nell’intenzione di una critica radicale nei confronti dei suoi fenomeni d’egemonico espansionismo industriale. Gli artisti, a loro volta, andarono contro un sistema dell’arte immessa come merce nel sistema generale dell’economia tendendo al suo superamento: parteciparono al movimento attraverso esperienze politiche con allestimenti di ateliers popolari stampando manifesti murali, organizzando e promuovendo concerti musicali e azioni performative con i quali si esprimeva una chiara approvazione a tutto il sistema di contestazione in atto.
Nella seconda metà degli anni Settanta Pescara visse momenti di grande fermento artistico e culturale tanto che, nel 1977. nacque “Convergenze”, un luogo in cui artisti di diverse generazioni con opposte esperienze espressive (tra cui Claudio Di Carlo), si sono incontrati permettendo cosi di far nascere attraverso la musica, la poesia, le arti visive e il teatro, importanti dibattiti di idee e tendenze culturali. “Convergenze”, perfettamente in linea con i fatti del decennio, divenne il luogo in cui il momento della produzione artistica coincise con l’atto vitale dell’artista: l’oggetto venne rappresentato con l’azione, con l’evento, per un bisogno di penetrare nella realtà. Ed è proprio in quegli anni che Di Carlo vede crescere la sua formazione culturale che lo porterà ad istituire, negli anni Ottanta, gruppi musicali di genere rock ed a partecipare, contemporaneamente, ad azioni e performances collettive. E con simili azioni, quindi, che l’artista portò avanti attivamente l’assunto arte-vita che si riproponeva, dopo la consapevolezza della prima avanguardia, come l’esperienza diretta dell’artista nella realtà, avviando quel processo di aggregazione che vide l’incontro di forme espressive diverse tali da rendere un’opera spettacolare. La sua scelta di portare il proprio messaggio culturale attraverso la musica e la fondazione di uno dei primi centri multimediale chiamato “Officina”, sono nati dall’esigenza di elaborare una ricerca artistica alternativa ai circuiti tradizionali.
Oggi, però, anche se tale assunto di vita è stato solo in parte abbandonato, per l’opportunità dell’evoluzione individuale che nella maggior parte dei casi conduce l’essere umano ad intraprendere dei percorsi alternativi a quelli che hanno caratterizzato la propria formazione, Claudio Di Carlo, pur conciliando alla sua attività di pittore la condivisione in campo musicale e performativo, conserva la sua volontà di apertura nei confronti delle altre arti.
L’importanza del suo lavoro riguarda lo studio compositivo e architettonico dell’immagine in cui la rappresentazione di particolari della figura femminile, ritratta in tutta la sua sensualità e in abbandoni erotici, rendono possibile mantenere uno stato di ambiguità che la figura intera potrebbe altrimenti volgarizzare. Il suo interesse non è rivolto alla narrazione del soggetto rappresentato ma attraverso equilibrate campiture di colori, ordinate per mezzo della precisione del tratto, mette in atto una articolata ricerca stilistica.
Claudio Di Carlo, eternamente cosciente di vivere nel suo tempo, sembra comporre attraverso i suoi quadri un armonico brano musicale frutto, oltre che della sua espressione individuale, del desiderio di comunicare, ogni volta, il valore sociale del fare artistico.
Ed è stata in occasione dell’inaugurazione della mostra “Life” in che si è riscontrata la sua volontà a continuare a rappresentare una nuova dimensione oggettiva attraverso uno spettacolare lavoro collettivo che, partendo dal principale riferimento dei suoi quadri, ha visto impegnati numerosi artisti in una serie di performances comportamentali e musicali offren-do, così, al numeroso pubblico presente, la possibilità di commisurarsi, ancora una volta, con un linguaggio artistico basato sullo scambio ed il confronto.
Adriana Martino
Dont’t cry baby: opere sulle tracce dei resti
La pittura di Claudio Di Carlo tratta particolari del corpo. Volti, piedi, gambe. Nella serie iniziale di opere dell’artista s’incontrano particolari come bocche, sederi, pubi. Di recente diventano tuttavia centrali e ossessive parti, quali: gambe, piedi, ma anche avanzi o secrezioni corporali. Quella di Di Carlo è una pittura carnale che si snoda su traiettorie diverse. Le opere si presentano principalmente all’insegna del racconto e della visione, nel vasto immaginario metafisico del nostro artista mediale, dove fanno la comparsa ulteriori particolari come trucco, minigonne, calze a rete, tacchi a spillo, bondage, pearsing, ecc. Dal 2001, una seconda ricerca accompagna quella primaria della pittura, riguarda la realizzazione di video installati o proposti in relazione agli ambienti indagati dai dipinti. Gli oli di piccole e grandi dimensioni su tela sembrano anche totalizzare un’irriverente esplosione contro il potere, mentre raccontano la vita d’una generazione, quella che ha segnato il cambiamento culturale e sociale degli ultimi trent’anni e che ancora oggi porta impresse sulla propria pelle ferite e cicatrici della lotta della controcultura giovanile di quegli anni. Ma la caratteristica più importante delle opere in mostra, di Don’t cry baby, è quella di essere una pittura su due fronti intrecciati tra loro che si levano come colonne, in un continuo rinvio che richiede una lettura a incrocio. A volte la colonna di sinistra (ma può anche essere l’esatto contrario) è dedicata ai corpi in decomposizione o a secrezioni corporali: carcasse di animali squartati o morti, come la serie denominata “Mattatoio barocco”, o lamiere di macchine incidentate, come la raccolta che ha inaugurato “Crash”; a destra compare invece una parte edificante che potrebbe anche essere identificata con l’arte nel suo trionfo sistematico rappresentato da corpi femminili, in una dialettica complessiva del quadro che ritrae una realtà che tuttavia si va sfaldando. La pittura rock, saturnina e “nera”, di Claudio Di Carlo, a cominciare dalla sua architettura e dalla sua struttura, lotta contro il male, richiama quella tradizione dell’arte del ‘600, con Caravaggio, del ‘700, con Goya, o quella più inquietante e parallela di artisti essenziali del Novecento, come Francis Bacon. Accanto ad essa si situano anche opere letterarie o cinematografiche, opere quali: Crash, di J.G.Ballard, e D. Cronemberg, Pulp Fiction di Tarantino,Trainspotting, Acid House o Ectasy di Irvine Welsh, Costretti a sanguinare di Marco Philopat, Vere allucinazioni di T. McKenna, assoluti capolavori delle dinamiche storiche complesse che hanno scosso la nostra memoria e informato chi non c’era o chi non aveva capito fino in fondo l’esperienza esistenziale di un passaggio d’epoca così importante, tra rivoluzione e controrivoluzione giovanile, che prima diventa sessuale e poi umanistica, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. Di Carlo va però oltre: egli non solo si rinserra a lavorare nel suo tempio/casa/studio/carcere ma in modo particolare rinuncia a ogni forma di sottomissione al sistema, meditando e concentrandosi su alcuni fenomeni pure presenti nell’arte, lo strapotere per esempio di chi opprime i deboli, fino a renderli carcasse vuote. Certo è che Don’t Cry Baby richiede una lettura che proceda in almeno due sensi, da sinistra a destra o viceversa. A sinistra, si può ipotizzare il cosciente. A destra, l’inconscio? Da una parte troviamo la materialità e il pensiero nel loro agire, dall’altro l’inconscio in forma ludica, con lo spirito che s’innalza fino al sublime. Si passa dal gioco del linguaggio alla logica (con una pittura velata e morbida in cui la luce sfuma dal grigio al rosso, passando simultaneamente dai toni freddi e cupi a quelli bruni e caldi); dalla poesia al suo slabbramento nella teoresi. Il resto o il dettaglio attraversa l’opera dividendola. Il resto in teoria mostra ciò che esso stesso può ancora generare. Don’t Cry Baby è un tentativo di elaborazione del lutto, per la morte dell’arte, per la fine dell’Occidente, e forse per ogni sorta di catastrofe passata e futura. La domanda a tal punto può anche essere: che cosa rimane allora dei resti dell’arte? I rinvii sono innumerevoli: lo smaltimento, ad esempio, di rifiuti eccellenti come i cadaveri, la sopravivenza del Mito, la morte del sistema dell’arte dopo la rivoluzione introdotta dalle nuove tecnologie e dalla new economy, forse il fratello dell’artista di recente scomparso. E se anche l’inammissibile avesse un ruolo fondamentale? Claudio Di Carlo è un artista indipendente, che gioca con la produzione, alla maniera di Charlie Chaplin o di Nanni Moretti nel cinema. Egli, dunque, potrebbe ben rappresentare un elemento di decostruzione sia del sistema sia della sua logica totalizzante. Nelle sue opere l’arte si riscatta e forse rinasce a confronto con la carne lacerata. Così, mentre sulla sezione di destra del quadro trionfano le sublimazioni, ovvero la vita, il sesso, l’arte, sul fondo o sulla sinistra giacciono i resti, le secrezioni, gli effluvi di carcasse putride. Se c’è un riscatto teorico questo è da cercare nella funzione del tempo: il tempo delle sorprese inaspettate, che nell’arte affiora dalla tradizione e dalla sperimentazione. Magari ricordando che la vita animale è anche dentro di noi e che paradossalmente ci guarda. L’animale nell’opera ci fronteggia. Noi al suo cospetto rimaniamo nudi. E’ l’ultima speranza che forse ci rimane. Ma è una speranza che dobbiamo far vivere dentro di noi.
Lucia Spadano
Claudio Di Carlo
Il linguaggio di Claudio Di Carlo è, da sempre, quello della pittura: la tela è il suo campo d’azione. Per lui la storia dell’immagine costituisce una fonte inesauribile da cui trarre materiale di riflessione. Nel ciclo di opere presentato recentemente in una personale presso una galleria romana sotto il denominativo di Crash, si legge un’aderenza bruciante alla realtà, più attuale che mai. La sua pittura, che sembra muoversi in un contesto del tutto immaginario, in un paese dove non hanno più corso le idee, invece tratta immagini che testimoniano scontri veri e morti ammazzati vissuti nello scenario del nostro quotidiano. L’incidente autostradale coinvolge vicende reali e sofferte dinanzi alle quali la parodia, il travestimento fetish di una donna con i tacchi a spillo, ci riporta al doppio senso che gioca tra il “serio e il faceto” , “ l’ eros e thanatos”. Le macchine, la violenza, le donne, la strada vuota sono i momenti di una pittura iconografica che trascrive l’agghiacciante vicenda di una cronaca, forse dell’illustrazione stessa. Nel ciclo presentato in questa mostra alla galleria pescarese Atelier 777, titolato Don’t cray baby, la contrapposizione vita/morte si ripropone in una messinscena ambientata in un mattatoio, in cui carcasse di animali squartati “convivono” con figure ostentatamente vive e vitali. La violenza, l’aggressività suggerita dalle prime sembrano tuttavia scherinire l’espressività inconscia delle altre.
Nella forma di una pittura che richiama molto lo stile della medialità, Di Carlo ci fa vedere scene verosimili, che toccano la consuetudine, drammi che non hanno niente di improbabile, simboli ed icone di donne che indossano oggetti ed accessori, spesso messi in primo piano o tagliati in particolari scorci, in modo da creare piccoli traumi percettivi nella curiosità infinita dello spettatore, o forse del guardone che fa a gara per scegliere se osservare i Thriller, le Spy story, o i video da erotic dream. Una simile successione di ideazioni, di immagini, di scene, si ritrova, con una potenza di suggestione fantastica e realistica insieme, in un romanzo pittorico che oggi sembra essere il momento fondamentale della ricerca di Di Carlo. E’ così che la vocazione mediale dell’artista tende a collocare su uno sfondo quotidiano, trasparente e post-realistico, il senso stesso della pittura. Esso acquista uno spessore drammatico nella misura in cui il piacere e il dolore provengono dalle varie storie di vita che i media sbattono in prima pagina. Un assolo drammatico della gente d’oggi che ci suggerisce un’idea: il dramma moderno è un dramma con molti monologhi.
Francesca Pietracci - Vertigini all'imbrunire - 2024
I due infiniti di Claudio Di Carlo
Claudio Di Carlo presenta una panoramica del suo racconto pittorico scandita da corpi e da situazioni catturati dai media, o provenienti da suoi scatti, rielaborati e dipinti. A unirli sono l’atmosfera indefinita dell’imbrunire, lo spaesamento e una sorta di vertigine. “Ogni cervello porta in sé due infiniti: il cielo e l’inferno”, sosteneva Boudelaire, ed è così anche per l’artista che avvicina immagini in rotta di collisione, abbinando il glamour alla disperazione. In quasi tutte le tele compaiono zone realizzate in foglia d’oro che sottolineano la metafora e simboleggiano sì preziosità, ma anche potere e sopraffazione. Enigmi, segreti, confessioni, passioni … tutto sembra incunearsi in quel mondo alieno che gravita all’interno di ciascuno. In particolare la sua attenzione va all’universo femminile che rappresenta per lui pur sempre un mistero da indagare e nel quale inabissarsi. Da qui hanno origine le sue visioni sensuali, politiche e sociali di donna amante, amica, madre o sorella. Un mondo per il quale a volte prova sconcerto e accanto al quale si è sempre schierato.
Le opere
Il segreto della sorellanza 1 e Il segreto della sorellanza 2, 2024, 100×100 cm, olio e foglia d’oro su tela
Le immagini sono tratte dal film estone di Anna Hints, di grande sensibilità e cura formale, intitolato Smoke Sauna – Sisterhood (2023), nel quale si racconta questo rito ancestrale. L’ambiente è una sauna nella quale le donne si riuniscono per fumare e parlare dei loro problemi intimi. L’attenzione di Di Carlo si focalizza sulla concretezza dei corpi femminili che, attraverso i loro gesti e le loro posture, lasciano trasparire la verità delle parole condivise. Con pennellate fluide e colori caldi, lui dipinge un insieme e non solo dei singoli organismi, affrontando i temi e le sfumature da sempre discussi dal Femminismo rispetto all’amicizia, alla solidarietà e alla sorellanza tra donne.
Knockout, 2024, 100×120 cm, olio e foglia d’oro su tela
La scena si svolge sul ring, le teste dei pugili collidono violentemente e dai loro volti sgorga sudore e sangue. Si tratta di un dettaglio da primo piano, tutto giocato sui toni del bianco e nero, per suggerire una lunga prospettiva storica, un cono d’ombra che da sempre caratterizza negativamente i rapporti umani. Le corde del ring sono realizzate in foglia d’oro, una tecnica sofisticata e di medievale reminiscenza. In questo caso, come in altre opere, la presenza dell’oro gioca un effetto spiazzante e simbolico. Oro come preziosità, ma anche come ricchezza, potere e sopraffazione. Le preziose corde del ring rappresentano politicamente il recinto costruito dai poteri intorno agli individui, la gabbia dentro la quale si può vivere e lottare solo per la reciproca distruzione.
Io sono qui, 2024, 60×60 cm, olio su tela e cornice in foglia d’oro
L’inquadratura di caviglie femminili su scarpe rosse dal tacco alto, messe a fuoco dallo zoom di una consistente cornice dorata, è una palese rappresentazione feticista. Tuttavia il pavimento e la stanza indefinibili ed evanescenti sui quali poggiano i piedi rendono l’idea di uno slittamento di senso rispetto al titolo dell’opera stessa. L’esserci è fortemente messo in dubbio dal senso di instabilità reso da un vasto ambiente lucido, scivoloso e indefinibile. Questo non luogo crea un senso di spaesamento e i piedi di questa donna, visti da dietro, sembrano piuttosto dire cosa ci facciamo qui. Molte possono essere le implicazioni di tale disagio, alcune delle quali riconducibili all’attuale allarme che arriva dall’odierna condizione femminile.
Vertigini all’imbrunire, 2022, 50×50 cm, olio e foglia d’oro su tela
Anche se non c’è niente di più classico del tema dell’amore, degli amanti e del bacio, quest’opera getta letteralmente luci e ombre su questa questione. La tenerezza con la quale si incontrano le labbra dei due innamorati è sovrastata da un abisso dai contorni dorati e sfavillanti. I loro visi sono in controluce, ma i loro capelli sono sfiorati da un raggio di luce così potente da sembrare innaturale. I due ragazzi danno l’idea di essere risucchiati in un mondo alieno, in un pianeta di altra consistenza. Anche questa volta accade qualcosa di strano, dal sogno e dalla beatitudine si passa gradualmente allo stupore provocato da una indefinita percezione dimensionale.
Secret life, 50×60 cm, olio e foglia d’oro su tela
Il gesto della donna che si porta le dita davanti alla bocca è sostanzialmente un enigma, come rimane un’incognita capire a chi questo messaggio è rivolto. Si potrebbe trattare di una considerazione fatta tra sé e sé, oppure rivolta ad un’altra persona, o indirizzata allo spettatore. Che si tratti di un commento segreto, di un concetto indicibile, di una reazione a ciò che sta ascoltando da un qualcuno che non compare? Poi viene il sospetto che la donna compia un semplice gesto voluttuoso, che si stia per leccare le dita dopo aver mangiato un pasticcino o che inviti qualcuno a baciarla. A volte un gesto vale più di tante parole, questo è certo! Il linguaggio del corpo riesce comunque ad ampliare il senso e a comunicare il non-detto.
All’alba, 2022, 50×50 cm, olio e foglia d’oro su tela
Poggiare i piedi a terra, cioè compiere il primo passo del mattino, ha un senso sia metaforico che letterale. Queste gambe dalla pelle nera che scendono dal letto rappresentano un risveglio, ma anche l’alba dell’umanità, che proviene dall’Africa, e ancora il senso della vita tra sogno e veglia, tra amore e morte. Sul pavimento color terra si scorgono infatti un teschio e uno slip da donna e all’orizzonte un’alba dorata. L’opera mostra l’inizio di un cammino, un percorso che viene attratto da una striscia di luce. La notte si lascia immaginare, ognuno ha la sua, e il teschio, comunque, viene lasciato in dietro e nell’ombra.
Donne in fuga, 2009, 110×100 cm, olio su tela
In un pullman pieno di gente in fuga, soprattutto donne, si vedono individui e bagagli dalla stessa consistenza corporea. Buttati qua e là, chi con tante valigie al seguito, chi con nulla. Una ragazza ascolta qualcosa alle cuffiette con aria noncurante, una donna anziana fissa il vuoto attonita senza esprimere emozioni, un’altra donna scruta sconsolatamente avanti. La scena si presenta a distanza ravvicinata, sembra di sentire lo sballottamento del mezzo, il leggero traballare degli oggetti e dei corpi. Le migranti sono donne che, costrette alla fuga, non portano altrove solo i loro corpi e la loro disperazione, ma anche il loro patrimonio culturale, depauperando per sempre il loro Paese delle sue ricchezze immateriali.
Europa, 2007, 120×60 cm, olio su tela
Purezza e degrado appaiono vis-a-vis per denunciare l’ipocrisia della nostra Europa. Una giovane donna mostra la sua eleganza, il suo corpo esile è un po’ ripiegato e i suoi occhi sono esclusi dall’inquadratura. Accanto a lei, sul marciapiede, un bidone traboccante di lattine di Coca Cola e cartacce sottolinea impietosamente lo squallore di una strada urbana, avvolta di mistero e malinconia per una inaspettata apparizione in lontananza. Si tratta di una citazione di uno dei dipinti più famosi di Giorgio De Chirico, Fanciulla con cerchio del 1914. Lo spiazzamento è forte se si pensa che un tempo, proprio in quella strada, i bambini potevano giocare e che il consumismo sfrenato e disperato non deturpava i luoghi e le vite.
Francesca Pietracci - Arte n' Rock - 1999
CLAUDIO DI CARLO – ARTE ‘n ROCK
Raccontando di intense e sensuali store d’amore, Claudio Di Carlo focalizza in questo suo nuovo ciclo di opere il rapporto tra arte visiva e musica, discorso che non potta mai esaunisi, né per quanto riguarda la sfera della sua esperienza personale, né per quanto riguarda il risvolto generale di questa problematica. L’artista si e interessato a lungo di musica, dal rock alle nuove correnti di ricerca, come a lungo la dipinto personaggi femminili rappresentandoli attraverso audaci tagli erotici, ma ora, forse per la prima volta, e nuscio a fondere pienamente questi due mondi che vivono contemporaneamente dentro di lui, E una questione di lucidita e di energia, e un mettersi in gioco fino in fondo seguendo un ritmo che trascina, una vibrazione che porta allo scoperto l’emotività, SI tratta quindi di un discorso in prima persona, non di una lettura oggettiva e distaccata del miti popolari. La sua pittura non e volta a ritrarre gli altri, quanto a comporre la storia per immagini della sua personale mitologia. Eppure non si tratta di simboli. I personaggi in questione (Nico, Jesus Christ Superstar, William Barroughs, Lou Reed, ballerini di tango, Che Guevara, ecc. ecc.) sono colti parzialmente, in un gesto o in un’espressione particolare, attraverso un ricordo che non fa conto soltanto sulla memoria visiva. In definitiva non diventano stereotipo. L’intensità del loro sguardo, la bocca spalancata nell’urto, un particolare ingigantito del loro viso, le loro parzialità in generale li riconducono tutti ad un unico punto, ad un accordo cerebrale che risiede nella mente dell’artista e che invade probabilmente anche il suo essere fisico data la commistione di questi con personaggi femminili dalla forte carica erotica. Ma anche qui l’attenzione non cade sul loro corpo, ma sull’intensità dell’espressione, E un pò come se si trattasse di un’opera sinfonica di matrice rock della quale entrano a far parte, forse come contrappunto, la donna” foresta, la malata, la bambina dallo sguardo E all’interno di questo scenario man mano prende piede l’idea del delirio, della sindrome da concerto, la sensazione di una realtà psichedelica che abita in noi, di una visione ipnotica, 1 passaggi cromatic dei quadri vanno dal bruno Van Dyck al bianco di titanio, come se si trattasse di foto antiche che invece di sbiadire i contorni nell’effetto seppiato, intensificassero | timbri ossidandoli in un colore metallico caldo simile a quello del bronzo. L’effetto morbido, comunque, è subito smentito dalla violenza del tagli di luce che feriscono le immagini, le mutilano, deformano, imprimendo loro un’impronta espressionista di matrice teatrale e non propriamente pittorica. Queste opere, infatti, risultano alla fine altamente drammatiche, cariche di azioni che si stanno per compiere completamente lasciando soltanto intravedere il loro culmine, Il gesto estremo che in un modo o nell’altro le caratterizza tutte. In questo senso infatti si può affermare che ognuna di esse rappresenta una storia d’amore Intensa e sensuale, ricca di toni duri e di toni languidi, di tutte quelle sfumature di significato che rendono il ricordo così vibrante e allo stesso tempo così diverso dalla realtà, così nostro e intimo a differenza di un presente che quando si svolge è quasi sempre estraneo, di tutti e di nessuno, perché ancora non metabolizzato a livello psicologico. La carica emotiva che scaturisce dal riaffacciarsi delle esperienze passate costituisce, quindi, lo strumento migliore per affrontare cio che sta avvenendo ora o che avverrà tra poco, Investendolo di affettività e di significato. Ed è partendo da questo presupposto che Claudio Di Carlo riesce a trasformare il gesto artistico in gesto ideologico e comportamentale, cosi come la sua pittura costituisce un mezzo espressivo complesso che recupera il fattore del tempo di realizzazione e di manualità a livello terapeutico, guarendo l’opera dalle patologie dell’estraneazione.
Roma, settembre 1999
Francesca Pietracci